martedì 14 luglio 2015

Classico e Anticlassico: la forma ritmica della storia culturale europea (parte 2)

di Angelo Ledda

vedi prima parte



Foto 1. l'ampliamento della Gipsoteca canoviana di Possagno 
opera di Carlo Scarpa del 1957

Alla stregua delle Avanguardie Storiche del primo Novecento [1] l'arte pre-classica venne considerata una sorta di avanguardia da rimettere in cammino perché ritenuta depositaria di valori e matrice per la ricerca di un linguaggio universale: 

Pirro Marconi propose il termine 'anticlassico'; altri sperimentarono più tardi 'aclassico' o 'eteroclassico' (…) Una sorta di avanguardia artistica antica che poteva esser resa ancora “attuale” e perciò proposta a modello per l'arte contemporanea (…) Il 'classico' come era stato costruito nei secoli precedenti non bastava più perché esso potesse alimentare il 'moderno' doveva produrre dal suo seno fecondi anticorpi, percorsi alternativi, suggerimenti sperimentali; doveva evocare e legittimare anche il primitivo e l'anticlassico, accogliere in sé non solo il centro ma anche i margini, persino le deviazioni dell'arte antica. Doveva insomma mettersi in sintonia con le Avanguardie” (Settis, 2004)

Nella critica e nella produzione artistica del Novecento, a partire dagli studi di Lilliu e Zervos e con un precedente nel disprezzo di Winckelmann per i bronzetti sardi, è stato introdotto uno sguardo archeologico e non più soltanto etnografico sulla cultura sarda, che troviamo riflesso anche nell'opera di alcuni importanti artisti del Novecento (vedi Costantino Nivola, Mauro Manca e altri). 
La cultura sarda entrava prepotentemente nel dibattito tra “classico” e “anticlassico”.
A distanza di cinquant'anni dall'articolo di Lilliu anche lo storico dell'architettura Bruno Zevi si chiedeva se il nuragico fosse:

Arte o fenomeno subalterno? Valutata con i preconcetti del classicismo l'opera è 'illetterata'. Ma originale, inedito gesto creativo appare il processo di erosione in verticale, il sottrarre materia, peso e spessore all'interno dell'involucro, favorendo cavità, nicchioni, persino una scala elicoidale che morde la volumetria del mastio con un anello spettacolare. Dissonante rozzezza: “ordo barbaricus” d'impronta anticlassica” 
(Zevi, Controstoria dell'architettura in Italia, 1995) [2]

Foto 2. Disegno di Francesco Venezia di "architetture ottenute per sottrazione" del 1984. Si riconosce il Pozzo sacro  di Santa Cristina di Paulilatino a sinistra affiancato, presumibilmente, da una chiesa etiope.
A me pare che la visione delle cose sarde sul piano del “barbarico” e del “primitivo” si sia affermata in diretta relazione con le vicende storiche e artistiche del Novecento, su un piano che se ha un senso per comprenderle e tale da giustificare persino una narrazione arbitraria (perché all'interno di una dinamica 'progettuale' operata dagli artisti e i critici d'arte), non può essere accolta acriticamente sul piano storico-scientifico.

Il termine "primitivo" o "arcaico" indica qualcosa che viene prima e che è posto alle origini (arché), ma proprio per questo ancora immaturo e infantile, perfettibile e non compiuto.
Questa definizione induce a chiedersi: alle origini di cosa? A cosa tende?
Il termine “barbarico” deriva invece da barbaro, straniero in greco, e insieme al termine “anticlassico” è una definizione in negativo che ci obbliga a sapere cosa sia “classico'” e cosa meriti tale appellativo.


Ranuccio Bianchi Bandinelli (1956) è chiarissimo nel delineare l'origine del termine anticlassico:

"Con questo termine, entrato in circolazione nella esegesi critica dell'arte antica attorno al 1925, si è voluta definire una tendenza stilistica propria a culture artistiche fortemente influenzate dall'arte greca, ma che in parte mostrano forme in evidente contrasto con i principi fondamentali di tale arte (il grassetto è mio, ndr).
Esso è stato usato perciò in particolare per l'arte etrusca (Bianchi Bandinelli, 1925-26; Riis, 1953) e per l'arte siceliota (P. Marconi, 1929, 1930-31). Tuttavia, mentre all'inizio esso non voleva significare più che una constatazione di fatto, cioè una non completa assimilazione e comprensione della forma classica, il termine anticlassico venne in prosegùo di tempo usato per sottolineare e definire la presenza d'un movimento reattivo al gusto classico in seno ad alcune aree di produzione artistica dell'Occidente mediterraneo fra il sec. VI e il I a. C." [3]
Tutte le definizioni che ho riportato non restituiscono una precisa fisionomia dell'arte sarda perché dicono al massimo che è “altra” cosa, non pienamente assimilabile a quella che definiamo "classica", lasciando intendere qualcosa di subalterno. 

COSA E' IL “CLASSICO”?

Un argomento di questo tipo potrebbe apparire ormai superato se non fosse che Salvatore Settis nel 2004 ha scritto un bellissimo testo dal titolo eloquente (Futuro del 'classico') e ancora nel 2014 l'architetto Peter Eisenman parla de La fine del classico, segno che il dibattito non è affatto esaurito.
Nel 1958 Tatarkiewicz distinse tre significati della parola “classico” che in qualche misura possiamo riconfermare anche oggi:

  • per denotare un valore: 'classico' può valere “di prima classe”, perfetto, riconosciuto come modello (in opposizione a imperfetto, mediocre);
  • per denotare un periodo cronologico: 'classico' può essere sinonimo di antico greco-romano (o anche solo dell'apogeo della civiltà greca)
  • per denotare uno stile-storico: 'classico' può riferirsi ai moderni che si siano ripromessi la conformità ai modelli antichi e pertanto 'classico' può dirsi di autori e opere che hanno armonia, misura, equilibrio.

Se il primo significato trova corrispondenza con quello originario, cioè derivante dal latino classicus riferito ad un cittadino che apparteneva alla “classis” più elevata dei contribuenti fiscali, è nel II secolo d.C che per traslato lo scrittore Aulo Gellio lo estese ad un “classicus scriptor, non proletarius”, volendolo indicare come di primo ordine e non della massa e per di più sentendo la necessità di affiancarvi, per meglio spiegare, cosa non è classico (cioè non proletarius).
A parte questa rara comparsa del termine la distinzione che all'epoca e più avanti si era soliti impiegare restava quella tra 'antichi' e 'moderni'. Sarà solo nella Francia del Cinquecento e del Seicento che il termine “classique” prese a designare in modo compiuto autori della letteratura francese, senza essere esteso all'arte figurativa.

Contemporaneamente venne anche a definirsi l'idea di un'età di mezzo, né antica né moderna, che fu indicata con il termine di Media Tempestas (Medioevo), inaugurando una prima classificazione di anticlassicità.
È in questo ambito che si inserisce il concetto di “arte barbarica” con riferimento all'arte che si sviluppò in Occidente all'epoca delle invasioni germaniche dal sec. V ai sec. IX.
Un termine che è stato successivamente esteso ed applicato, come abbiamo visto, ad altre “volontà d'arte” (il termine è di Riegl) di altri periodi e luoghi, soprattutto occidentali e del quale - va aggiunto - si è soliti ricondurvi tracce precedenti nell'arte di La Tène [4].
Nonostante analisi molto attente abbiano dimostrato relazioni continuative tra il Medioevo e il Rinascimento, la storiografia dell'epoca e quella successiva hanno polarizzato ed estremizzato i due periodi contrapponendoli in modo marcato, fino a costruire lo spartiacque tra una età buia ed una età moderna.
Un età buia (dark age) che per estensione (e non a caso) è stata impiegata anche per definire il cosiddetto medioevo ellenico che precede l'età arcaica greca, alle origini del mondo classico.

Il termine "classico" come sinonimo di antichità greco-romana non si stabilizzò prima degli inizi del XIX secolo d.C. e occorrerà aspettare la fine del XVIII per trovare il termine applicato non soltanto alla letteratura ma anche alle arti figurative, quando si cominciò a parlare di filologia 'classica', di archeologia 'classica', di musei di arte 'classica' in ambito accademico. Sarà proprio in questo periodo che saranno nettamente distinte l'antichità greco-romana da “altre” antichità (per esempio quella ebraica o egizia): “ma la scelta di definirla con l'attributo di “classica” implicava che quella era l'antichità per antonomasia, quella dominante (...) la nuova cultura 'classica' era rivolta ai classici del presente, l'alta e media borghesia, le classi dirigenti (in opposizione come in Gellio, ai proletari)” (Settis, 2004)
Ne consegue che con il termine "anticlassico" si sia finito per delineare ciò che non è greco-romano, divenendo quest'ultimo il termine di paragone, lo spazio della perfezione.
Si trova qui la ragione della polarizzazione di un certo modo storiografico di ragionare per coppie antitetiche.

IL PERCOSO BIOLOGICO-PARABOLICO
Cosa rendeva necessaria una siffatta estremizzazione può spiegarcelo un tratto fondamentale del concetto di “classico” che ora cominciamo ad intravedere:
secondo un percorso parabolico modellato sulla vita umana, all'arte veniva attribuita una sua origine (arte arcaica, da arché), una infanzia e una pura giovinezza, una rigogliosa maturità e a seguire una lenta senescenza (decadenza, imbarbarimento). Infine la morte, esattamente come nella vita biologica di un essere umano. Come se l'arte nel suo complesso fosse dotata di una vita propria ed autonoma.

Fu Winckelmann ad operare questa sistemazione nel campo dell'arte ma non ne fu l'inventore dato che vi furono precedenti esperienze in tal senso, come in Vasari e le sue Vite, Plinio e Vitruvio e persino Aristotele con la nascita e sviluppo della Tragedia.
Ma che succede quando quel percorso “biologico-parabolico” raggiunge la morte (dell'arte)?
E' proprio in questo contesto che entrano in gioco gli anticlassicismi, di cui si ha necessità per legittimare la riscoperta e la rinascita di quei valori che nel frattempo avevano perduto il loro significato:
Un paradigma evolutivo dell'arte antica che faceva leva sul suo momento finale, la decadenza: come le arti erano morte alla fine dell'antichità, così esse potevano rinascere, e di fatto erano rinate (…) Il modello biologico-parabolico, che si concludeva nella decadenza e nella morte delle arti, con l'aggiunta della rinascita diventava un modello ciclico, che anzi si presta a ripetersi infinite volte, in un continuo susseguirsi di catastrofi culturali a cui seguono altrettante rinascite" (Settis, 2004 - p. 80)
Nel percorso di ascesa o di discesa della parabola oscillano modelli continuitistici dello sviluppo storico e modelli incentrati, al contrario, su più o meno marcate discontinuità. Così il "classico" finisce per essere definito da una serie di opposizioni binarie:
  • contrapposizione al Gotico ('500-'600)
  • contrapposizione al Romanticismo ('800)
  • contrapposizione al Primitivo o 'Autentico' ('900)
Foto 5. Il bianco puro e ideale delle copie romane e del Winckelmann e il colore della Grecia classica

"Classico" non è affatto un termine statico e fissato nel tempo, di volta in volta è mutato ed é stato oggetto di profondo dibattito tra gli studiosi.
Basti qui un esempio: per Winckelmann l'arte romana era già decadenza, mentre per Piranesi era l'esatto opposto. Oggi invece per "classico", oltre al periodo cronologico specifico della storia greca, siamo soliti intendere il mondo greco-romano nel suo insieme.
Senza voler negare all'arte percorsi evoluzionistici (o influenze e derivazioni) insiti in ogni ricerca e sperimentazione che procede per continui affinamenti e aggiustamenti, è bene sottolineare che questa linea di continuità “biologico-parabolica” che a noi potrebbe apparire scontata è in realtà una precisa modalità di lettura dell'arte e delle culture che l'hanno prodotta; è un tratto caratteristico e specifico della civiltà europea, non un tratto assoluto. 
Chi definisce l'arte (e non solo) secondo questo schema biologico-parabolico è solito collocarsi nella parte discendente della parabola e attribuisce una certa superiorità a quella antichità che ha scelto di considerare 'classica'.
Non si tratta di un postulato più o meno scontato ma di un progetto elaborato a partire da uno sguardo retrospettivo con atteggiamento nostalgico nei confronti di una antichità di volta in volta ritenuta depositaria dei più alti valori.
Una volta definito l'apice e il massimo splendore di una determinata cultura, col senno di poi vengono definiti a cascata gli estremi e i suoi momenti di sviluppo: l'origine e la crescita (arcaismo e maturazione), la piena maturità (apice, perfezione formale), ed anche i progressivi allontanamenti e le perdite di senso (senescenza, imbarbarimento, decadenza) fino alla morte, dove trovano spazio tutte le "volontà d'arte" ritenute non pienamente depositarie di quei valori.
Quelle stesse morti (gli anti-classicismi) costituiscono il meccanismo che garantisce la rinascita (una o più volte) secondo una forma ritmica che si ripete ciclicamente:

L'uomo muore e non rinasce, il “classico” muore per rinascere, ogni volta uguale a e stesso e ogni volta diverso. Questo modello ciclico, questa ricorrente ossessione per un classico sempre dato per definito e sempre rinascente, attraversa tutta la storia culturale europea” (Settis 2004)

UN COMMENTO
Foto 5. 
"Pugilatore" da Monte Prama

Cabras di Giacomo Mulas
In questa alternanza tra continuità e discontinuità può riconoscersi un valore altamente positivo: la traccia di una cultura che con le sue continue rinascite e attraverso questa "forma ritmica", reca in sé le infinite stratificazioni che hanno fatto dell'Europa la terra delle “traduzioni” (Cacciari).
Traduzioni che almeno nei momenti più alti della storia europea hanno implicato curiosità verso altre esperienze culturali, la necessità di comprenderle e conoscerle in quanto 'diverse', talvolta integrandole e facendole proprie. Rinascendo continuamente, sempre uguale e sempre diversa.
Settis si augura che Quanto più sapremo guardare al 'classico' non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di profondamente estraneo e sorprendente, da riconquistare ogni giorno, come un potente stimolo a intendere il 'diverso', tanto più da dirci esso avrà nel futuro.”
Ma questo è un argomento molto complesso e che rischia di sfuggire oltre il senso del discorso che ho delineato.
Non è inutile sottolineare il ruolo enorme che gioca ed ha giocato in questo senso la tradizione mitologicaMa anche su questo punto qui mi fermo.

Il discorso che mi sento di portare a conclusione è invece relativo alla comprensione di un rapporto complesso tra passato e presente e nella narrazione che si opera.
Un problema che si pone in tutta evidenza davanti agli storici e simmetricamente agli artisti e ai progettisti.
Non so se e quale interesse queste righe possono aver portato ai lettori di questo blog e mi scuso se ravviseranno ingenue e inevitabili semplificazioni, ma credo siano sufficienti a cogliere i rischi possibili del 'piegare' i dati ai paradigmi e ai sistemi ritenuti collaudati, piuttosto che crearne di nuovi quando esperienze diverse li mettono in crisi.
L'immagine figurata nell'arte sardo-nuragica, in particolare l'esperienza artistica di Monte Prama e le datazioni relative alla necropoli (ma anche la retrodatazione dei bronzetti sardi) stanno ponendo seri problemi a questo sistema ritenuto "collaudato", tanto che tutti i riferimenti e le possibili influenze portate nel ragionamento non sono risultate affatto pregnanti.
Come ha scritto Ranuccio Bianchi Bandinelli rievocando la scoperta della civiltà cretese preellenica, laddove si è era ritenuta quella greca arcaica l'origine assoluta dell'arte:
Sicché gli schemi dello svolgimento artistico, che erano stati così ben accomodati a una linea parabolica di sviluppo ne restano sconvolti: ancora una volta la costruzione teorica veniva battuta dalla concretezza dei fatti (…) Anche se ogni civiltà produce da se stessa il proprio linguaggio artistico e le “influenze”, così comode a risolvere ogni problema nella storia puramente formalistica dell'arte, non hanno efficacia se non come soluzioni più facili per un problema già maturato...”
Così le descrizioni attraverso coppie antinomiche tipiche del Novecento, nella lettura dei fatti artistici sardi, rischiano di diventare trappole e non strumenti ausiliari, perché se non approfondite suggeriscono movimenti e tensioni verso (o lontano da) qualcosa ritenuto portatore di “perfezione”, al prezzo di ridurre i fenomeni artistici a qualcosa di immaturo e imperfetto o in altri casi di vecchio e morente. Per la stessa ragione anche le denominazioni e la nomenclatura dovrebbero essere sempre sottoposte ad una verifica “etimologica”. D'altronde è noto che le "parole pensano più di noi".
Può anche darsi che il sistema ritenuto collaudato funzioni e ne esca rafforzato, ma a patto che non lo si consideri ciecamente e fedelmente. 
E' vero che le categorie che ho descritto per l'arte sarda sembrano cadute in disuso (anche se resistono in diversi libri di testo di storia dell'arte presenti nelle scuole) ma questo corrisponde più ad un imbarazzante silenzio che ad un vero e proprio abbandono di questi paradigmi fatti propri da Lilliu, che pure avevano un senso nel periodo storico in cui furono delineati.


NOTE:
1] Ci si riferisce in particolare d Astrattismo, Cubismo, Dadaismo, Futurismo e Surrealismo;
2] Mi preme sottolineare la descrizione di Zevi dell'architettura nuragica secondo un processo sottrattivo, argomento che condivido e che ho provato a descrivere anche ne “Il sacro segretopalese”(2014);
3]  Il grassetto è mio. Bandinelli aggiunge ancora: “Specialmente il Marconi si sforzò di dare al termine anticlassico un contenuto positivo e definito: "l'anticlassico appare a primo momento come visione incerta, isolata dalle espressioni dell'arte che sono greche; poi man mano si concreta, si conquista, assume proprio carattere, mostra la propria sostanza" (1930-31); "è tutta una visione diversa da quella classica, una affermazione, un sentimento di mondo, un principio opposto, che si cerca la forma sua, nuova; e alla radice vi è una esigenza che nega il classico, il voler conservare la vita con la sua vivacità brusca di contrasti, con la sua molteplicità, con la sua scissione nell'individuo e nell'atomo; voler insomma affermare con tutti i suoi caratteri la visione del reale, sacrificata all'esigenza riduttrice della forma; preporre infine l'esigenza della sostanza a quella della forma; l'inversione dei rapporti, dunque, che regolano alla radice il mondo classico e la sua espressione formale" (ibid.). In questa formulazione, però, affiora una interpretazione non appropriata del classico come prevalenza della forma (formalismo) sulla sostanza, interpretazione che deriva da un attardarsi, nella critica archeologica, dell'equivoco sorto nella cultura dell'età neoclassica, fra classicità e classicismo, che son due cose ben diverse. Inoltre va considerato più attentamente il problema, se le forme definite col termine di a. provengano da una voluta e consapevole opposizione e reazione alla forma classica greca, oppure ne rappresentino una degradazione popolaresca artigiana e, in sostanza, atemporale e priva di possibilità di sviluppo. Altri studiosi cercarono di definire le caratteristiche formali dell'antica arte italica riportandole a un diverso principio strutturale (Kaschnitz-Weinberg) connesso ad elementi antropogeografici ed etnici, elementi, cioè, non storicizzabili. Il termine a. ha giustificato la sua origine nel tentativo di superare gli schemi neoclassici della critica d'arte in campo antico (e per questo lato si riconnette alle posizioni del Riegl, v.), non senza subire, anche in questo caso, suggestioni dall'ambiente dell'arte moderna contemporanea ("espressionismo"). Ma deve riconoscersi termine non sufficientemente valido a definire una realtà storica assai più complessa, dalla cui analisi, piuttosto che dalla applicazione di astratti schemi estetici, deve scaturire la definizione di una civiltà artistica e delle opere in essa prodotte”.
Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/anticlassico_(Enciclopedia-dell'-Arte-Antica)/
4] Si veda il seguente link http://mosa.ouvaton.org/acy.htm. Nel blog Monteprama se ne discusse in relazione alla sepoltura rannicchiata rara quanto quella presente nella necropoli di Monte Prama a Cabras.
 

BIBLIOGRAFIA
  • Ranuccio Bianchi Bandinelli, Organicità e Astrazione, Electa 2005
  • Giovanni Lilliu, “Quell'amico di un popolo 'barbaro”, 1975, pubblicato in Giovanni Lilliu, Una vita da archeologo, Coll. La biblioteca della Nuova Sardegna, 1995, Carlo Delfino Ed.,
  • Giovanni Lilliu, “Sardegna: isola anticlassica” (pubblicato in Il Convegno n.10, 1946 pp.9-11), in Giovanni Lilliu, La costante resistenziale sarda, Illisso Ed., Nuoro 2002
  • Maddalena Mameli, Le Corbusier e Costantino Nivola. New York 1946-1953, Franco Angeli, Milano 2012
  • Salvatore Settis, Futuro del 'classico', Einaudi 2004

6 commenti:

  1. mordicchiando
    Beh, scorrendo questa nota del Ledda, vi ho scoperto una sorta di docezza esplicativa dei concetti; m'è sembrato essere in presenza d'una verginità dimenticata. Per questo son grato all'Autore.
    Ed, appunto perché mordicchiando men vo', ho il desiderio d'aggiungere:
    “Arte o fenomeno subalterno? Valutata con i preconcetti del classicismo l'opera è 'illetterata'. Ma originale, inedito gesto creativo appare il processo di erosione in verticale, il sottrarre materia, peso e spessore all'interno dell'involucro, favorendo cavità, nicchioni, persino una scala elicoidale che morde la volumetria del mastio con un anello spettacolare. Dissonante rozzezza: “ordo barbaricus” d'impronta anticlassica”
    (Zevi, 1995).
    "si deve tener presente che la civiltà nuragica non è una civiltà classica, cioè una civiltà logica alle estreme conseguenze con una coerenza stilistica globale; è invece una civiltà «impulsiva» che rifugge dal perfetto e dal finito, obbedendo alle suggestioni delle disarmonie, degli squilibri, delle improvvisazioni «barbariche»". (Lilliu, dal 1963 in poi)
    Ho come la sensazione che lo Zevi abbia poco approfondito lo argomento del quale pretenda dare una "sua" definizione! Copia e incolla? Io, chiaro, ne vedo il gesto.
    mikkelj

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    1. Grazie Mikkelj del tuo commento.
      Ti confermo che leggi bene rispetto al debito che la definizione di Zevi ha nei confronti di Lilliu. Ora non ho sottomano il passaggio preciso ma ricordo che è lo stesso autore a non nasconderlo.
      Nel caso specifico finisce indirettamente per sottolineare che quella del Lilliu è forse l' "unica" analisi organica e complessiva (almeno così mi risulta) di inserimento nella storia dell'arte fatta sull'arte nuragica...

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  2. Mi vien da dire che l’arte nuragica occorra guardarla da lontano per apprezzarla, come da lontano si apprezzano le pennellate di Caravaggio che col gioco del chiaro scuro, illudono il nostro cervello da una certa distanza, non certo da "sotto il naso". Nuraghe Losa da’ quel senso di perfezione di sagome e perfetto puzzle di conci solo da una certa distanza, avvicinandosi ci si rende conto delle scabrosità.
    Di un bronzetto non si deve guardare il particolare anatomico, ma il gesto di spontanea naturalità, mentre al contrario, il pozzo di Santa Cristina non bisogna guardarlo nella “classicità” dei perfetti conci isodomi, ma nella creativa costruzione dei muri laterali della scalinata che parrebbero formare due pareti perfettamente piane benché aggettanti, ma che ad un’analisi un po’ più attenta rivelano essere tutt’altro che piane, dovendo unire le linee della scalinata a ventaglio con quelle parallele della scala rovescia.
    L’architettura e l’arte nuragica è tutta ottenuta per sottrazione, se per sottrazione s’intende il suo significato originario ossia ”trarre da sotto”, che nell’accezione odierna più negativa ha il significato di trarre qualcosa in modo furtivo e nascosto; che per quelle genti è possibile avesse un significato ben più che positivo legato al divino, ossia: non fermarsi alla superficie sensoriale ma andare oltre e “sottrarre” il nascosto e renderlo percettivo attraverso il senso immateriale della mente che tramite continui paragoni con forme già note, da’ il senso a ciò che l’opera d’arte vuole esprimere; ecco che allora, noi oggi sperimentiamo ciò che essi volevano comunicare attraverso un gesto cristallizzato nel bronzo e la stessa emozione che Michelangelo voleva comunicare con la sua “pietà”, io la trovo e la provo nel bronzetto della “madre dell’ucciso” (Sa domu ‘e s’orchu di Urzulei), o nell’altra scultura “La grazia”, ritrovata a Santa Vittoria di Serri; e a prescindere da ciò che queste ultime volessero realmente comunicare (per Lilliu sono due madri che piangono i loro figli morti, ma potrebbe essere ben altro), c’è il fatto che scatenano emozione e per un attimo arrestano l’osservatore che si sorprende a riflettere quelle immagini su immagini ed emozioni a lui note.
    Il pozzo di Santa Cristina, nella sua plasticità che parrebbe richiamare l’arte classica evoca invece il fascino del misterioso, vellutato e accogliente grembo materno. Ecco che allora la geometria delle perfette forme universali si intreccia in un naturale connubio con forme a noi note e care nell’inconscio ricordo del grembo materno e quella perfezione di forme sta lì a ricordarci che la natura è perfetta. Quella che vediamo nella struttura del pozzo di Santa Cristina è la "materializzazione della forma perfetta" e benché possa sembrare strano anche il nuraghe è la materializzazione di una forma perfetta, con una sostanziale differenza però: il pozzo sacro sublima le forme nell’intento di far interagire la parte maschile della divinità: quella solare e taurina con la parte femminile: dea madre e acqua simbolo di fertilità e vita; per tanto il monumento è tutto legato al divino e l’uomo è solo consapevole spettatore in uno scenario tutto divino. Per contro la plasticità delle forme perfette del nuraghe stride con la sua austera accozzaglia di massi informi. Che messaggio vuol dare l’uomo nuragico (non a noi ma alla sua divinità, naturalmente), con quelle forme? Io penso voglia dire semplicemente che quel monumento (il nuraghe), nelle sue forme geometriche assolute ed universali, è stato ispirato dalla perfezione divina ma realizzato per un connubio impari tra dio e l’uomo, dove l’uomo imperfetto sotto ispirazione divina costruisce con le proprie mani guidate dal proprio intelletto, forme perfette con materiali imperfetti, perché è sua iniziativa quella di rendere lode al suo dio in un tempio a lui dedicato, dichiarando con ciò la sua sottomissione, al contrario del pozzo di Santa Cristina, dove la mano dello scalpellino è guidata se non addirittura: incarnazione de “Su santu doxi”.

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    1. Caro Sandro, solo un appunto (facile, spero non ingeneroso). Hai presente la foto 5 di questo post di Angelo? La scultura bianca ideale classico di età romana accostata (senza parole) all'originale greco (o a quanto di più vicino ad esso sia oggi ricostruibile)?
      Ecco, guardare ai conci più o meno sgraziati (da vicino) del Losa mi fa pensare allo sguardo sulla copia romana di quell'originale greco: facilmente siamo portati a credere che gli artefici originali li volessero presentare così, ma quella livrea sta a dirci che gli intenti erano altri e, quindi, che il nostro giudizio, per non andar per granchi, deve anzitutto riconoscerli. Lo stesso, mi pare, ci dicono per i nuraghi (o per le architetture nuragiche nel loro insieme) gli studi che ricostruiscono dovessero esservi tra i conci e all'esterno come all'interno delle pareti materiali isolanti, che conferivano alle superfici delle costruzioni diversa regolarità e diversi colori.
      O sono studi poco convincenti? O volevi dire che bisogna guardare da lontano l'arte nuragica come ci appare nel presente, per avvicinarci meglio al suo aspetto originario?
      Già che ci sono, un altro mezzo appunto. Dei bronzetti, dici, non si devono guardare i particolari ma il gesto di spontanea naturalità. Non sto a discutere quanto le pose possano dirsi sempre spontanee e naturali (o meno), ma mi sembra abbastanza oggettivo constatare che è proprio la ricchezza dei particolari a parlarci e a dire della perizia e in qualche modo degli intenti dei loro artefici (particolari non anatomici, è vero, tu di quelli parlavi; ma, in argomento, la ricchezza dei "particolari altri" merita, credo, di essere citata; ritengo a proposito sia sempre da raccomandare, per i pochi che ancora non lo abbiano conosciuto, "Il popolo di bronzo", di Angela Demontis, edizioni Condaghes).

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  3. Bravo Angelo! Un articolo stimolante e con commenti stimolanti. Stupendi. Ma non mi fregate! Tengo il pungolo e lo stimolo a freno. Diamo tempo al tempo e vedremo se la conoscenza storica approfondita (più approfondita) della 'civiltà nuragica' ci potrà dare coordinate scientifiche o oggettive per capire i fenomeni artistici autonomamente cioè senza il ricorso a 'categorie' moderne della critica che, secondo me, nulla spiegano nella loro inadeguatezza e semmai confondono le idee..Qui con una maschera guardo la vita varia e immensa che si trova in una sola pozza d'acqua presso la riva del mare. E la bellezza effimera dei colori di un pesce appena pescato. Guardo e osservo. Prexau che puxi! Senza che mi freghi nulla della biologia. Come la prima volta che vidi quelle statue singolari. Senza che mi fregasse nulla, ma proprio nulla (allora) della storia dell'arte. State bene e riposate e, se potete, venite a trovarmi.

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